Le doti alle zitelle – L’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato ha amministrato un nucleo cospicuo di rendite destinate, per volontà dei benefattori, a soccorrere fanciulle di umile estrazione sociale con il desiderio di sposarsi o monacarsi.
Il patrimonio in questione si avvaleva fondamentalmente dei beni lasciati da 9 fondatori dei quali, per sommi capi, si riportano i punti salienti delle loro disposizioni testamentarie.
Matteo dell’Ancisa, con testamento rogato il 14 maggio 1545, lasciava il godimento di alcune doti destinate al matrimonio con la clausola che si preferissero le zitelle oneste e legittime sue agnate e cognate e, in seconda scelta, quelle elette dai confratelli.
Simone Salvatori, con testamento rogato in Firenze dal notaio Arrighi nel 1573, stabilì che il ricavato delle pigioni di una casa a Campo dei Fiori a Roma dovesse essere distribuito tra le figlie dei confratelli della Compagnia di San Giovanni Decollato e quelli della Compagnia della Pietà allo scopo di farle maritare. Precisava pure che ne fossero escluse le giovani le cui sorelle l’avessero già ricevute ma non si fossero ancora sposate.
Francesco Barbieri, con testamento rogato dal Vai notaio capitolino il 3 gennaio 1591, lasciava scudi 3000 la metà dei quali destinati a tre doti, poi ridottesi ad una, del valore pari alle rendite accumulate, per matrimonio o monacazione preferendo le parenti dei fratelli e, in seconda scelta, quelle decise dalla congregazione. Una dote era inoltre destinata alla Compagnia dell’Orazione e Buona Morte di Roma.
Vincenzo Fede, con testamento rogato dal notaio Pistrelli il 12 agosto 1593, lasciava una dote di scudi 40, ridotta a 30 per monacare una zitella romana.
Un lascito di particolare rilevanza fu quello di Valerio Buonafede che, con testamento rogato 6 febbraio 1601, donava, oltre a denari liquidi, anche il casale di Decima con masserizie e bestiame annessi. Stabilì che la quarta parte delle rendite dovesse essere distribuita annualmente durante la festa della Ss.ma Annunziata alle giovani che desiderassero monacarsi, privilegiando le orfane figlie o sorelle di confratelli della nazione fiorentina, poi quelle nate a Roma preferibilmente nei rioni Ponte e Trastevere e destinando loro scudi 50 fruibili solo una volta nella vita. Al fine di ampliare il patrimonio aggiunse come postilla che per i primi cinque anni le entrate derivanti dal bestiame fossero esclusivamente utilizzate per comprare nuovi luoghi di monte. Stabilì infine che una dote fosse destinata alla Compagnia dell’Orazione e Buona Morte, alla quale l’Arciconfraternita doveva rendere conto annualmente di tutte le entrate e le distribuzioni delle doti, allo scopo di vigilare sulle scelte e di controllare le elargizioni. Nel 1666 i confratelli riuniti in congregazione segreta decretarono che, a causa di una diminuzione delle rendite non fosse più possibile elargire alcuna dote.
Giacomo Carpiani, con testamento rogato dal notaio Vatello il 31 dicembre 1611, lasciava 2000 scudi da rinvestire in luoghi di monte perché con i frutti ricavati si potessero creare 4 doti per matrimonio da elargire ogni due anni a giovani fiorentine residenti a Roma.
Tommaso Papini, con testamento rogato 20 maggio 1612 da Giulio Olivelli notaio di Roma, ordinava che la metà dei frutti dei luoghi di monte fosse devoluto a zitelle fiorentine residenti a Roma, stabilendo scudi 50 per coloro che volessero prendere i voti.
Benedetto Averini, con testamento 2 febbraio 1635 rogato da Tranquillo Scolari notaio capitolino, lasciava 1 o più doti a seconda delle entrate pari a scudi 50 per matrimonio. Nel 1696 la congregazione accordò la preferenza alle fiorentine ed alle volterrane.
Infine Colomba e Grazia Del Benino nel 1641 lasciarono 1 dote di scudi 20 da elargire ogni due anni per monacazione o matrimonio ad una zitella o ad una convertita.
La riservatezza delle finalità con cui tali sostanze venivano ereditate, spinse inizialmente i confratelli a creare dei capitoli dedicati all’interno dei registri contabili, gli stessi utilizzati per l’amministrazione dell’Arciconfraternita.
Il successivo aumento delle rendite patrimoniali e soprattutto la più recente revisione statutaria del 1712, che pretendeva una maggiore trasparenza nelle operazioni economiche, li spinsero nel 1757 a separare la gestione dei beni destinati esclusivamente alle dotazioni e ad inaugurare una contabilità a parte intitolata per l’appunto Amministrazione generale dei legati ed eredità.
Il personale addetto a tale gestione era lo stesso dell’Arciconfraternita ed anche la tenuta dei registri seguiva le medesime modalità. Una attenta analisi dei libri mastri e dei registri delle entrate e delle uscite rivela come le prime derivassero essenzialmente da un continuo reinvestimento dei frutti provenienti dai luoghi di monte e dalle riscossioni delle pigioni degli immobili lasciati dai testatori alla Compagnia.
Le uscite si suddividevano sostanzialmente tra le spese per le celebrazioni delle messe di suffragio, le spese di amministrazione e l’elargizione dei sussidi dotali.
Per quanto possa sembrare estremamente arbitrario, a partire dal 1545 e per più di due secoli, l’unico regolamento che i confratelli seguirono nell’erogazione dei sussidi fu la semplice lettura dei testamenti. Ciò si evince dai libri dei verbali delle congregazioni per le doti nei quali, prima di procedere alle operazioni di voto che venivano opportunamente registrate, si premuravano di riportarne gli estratti al fine di rendere trasparenti le operazioni di attribuzione.
Nello statuto del 1712 con l’introduzione del capitolo «Del modo di distribuire le doti» se ne fissarono finalmente tempi e modalità.
Nella prima tornata del mese di giugno veniva pubblicato l’avviso del concorso, in base al quale entro 15 giorni le giovani, che volevano candidarsi, dovevano inoltrare la domanda corredata da un memoriale nel quale indicare i propri dati anagrafici. Le istanze erano dapprima esaminate dal governatore; si procedeva quindi alla verifica delle notizie riportate nei documenti. A tal compito erano chiamati a rispondere quattro confratelli, i visitatori, che dovevano raccogliere qualsiasi informazione servisse a comprendere i costumi morali e religiosi delle giovani e a verificare le reali difficoltà economiche, annotando ogni utile notizia nei registri delle doti. Ritiravano quindi alle fanciulle la fede parrocchiana per esibirla ai confratelli al termine delle votazioni.
Nella selezione erano genericamente privilegiate le giovani toscane, orfane, figlie o sorelle di confratelli, di origine fiorentina o perlomeno figlie di fiorentini; solo Valerio Bonafede dispose che alcune doti fossero elargite a giovani romane residenti preferibilmente nei rioni Ponte e di Trastevere, come testimoniano le rubriche del 1766 e del 1777.
Le candidate dovevano avere almeno 17 anni; l’età scendeva a 15 anni se il numero delle diciassettenni fosse stato inferiore alle doti da elargire o se vi fossero tante doti ricadute.
Riuniti in congregazione generale il governatore, il provveditore, il camerlengo ed il segretario analizzavano i bilanci delle entrate e delle uscite preparati dal computista e dall’esattore, la nota delle doti che potevano essere tratte da ciascun legato ed il conto delle doti ricadute. Quindici giorni prima della festa della Ss.ma Annunziata, si mandavano a partito prima le polizze per matrimonio, poi quelle per monacazione. Nel caso in cui poi rimanessero altre disponibili, si estraevano i nomi degli ufficiali che potevano scegliere le ultime dotande.
Terminate le estrazioni, il segretario compilava le cedole specificandovi i dati anagrafici della giovane ed il legato da cui si traeva la dote. Dovevano essere sottoscritte dal governatore, dai due consiglieri e dal segretario che vi apponeva il sigillo. Le cedole rappresentavano una promessa di dote che sarebbe stata pagata solo quando la giovane avesse esibito i documenti attestanti le avvenute nozze o la monacazione nel giorno della Ss.ma Annunziata o la domenica successiva. Il segretario infine registrava sommariamente sul verso dell’istanza presentata il giorno della congregazione in cui la candidata andava ai voti e l’eventuale ammissione.
Non è detto però che tutte le doti assegnate fossero sborsate. Le motivazioni potevano essere diverse, quali la sopravvenuta morte della dotanda o semplicemente la rinuncia al matrimonio o alla monacazione.
In questi casi perdevano ogni diritto e dovevano restituire il cedolino. Tali doti venivano definite caducate o ricadute e le somme che rientravano nelle mani della confraternita andavano a costituire la ricadenza delle doti, che potevano essere nuovamente conferite, sempre nel rispetto delle volontà dei fondatori; potevano essere inoltre elargite unicamente in sussidi dotali senza statuirne la reversibilità a favore di altri istituti o di altre opere di beneficenza.
Questo valse almeno fino a quando la pietà dei confratelli verso i giustiziati si estese anche alle loro figlie e sorelle, spingendoli a supplicare papa Clemente XII d’impiegare le doti ricadute (ad eccezione di quelle riservate secondo le disposizioni dei testatori alle figlie dei fratelli) in sovvenimento delle figlie e sorelle dei condannati a morte che volessero maritarsi. L’approvazione giunse con rescritto pontificio 24 gennaio 1737 (il cui originale trovasi negli atti del Consolato del 1737) pro gratia oratoribus indulsit ut conferri valeant dotes de quibus in precibus ut petitur, reservatis tame illis doti bus quae ex praecepto piorum benefactorum praelative conferri debent filiabus et sororibus confratrum Archiconfraternitatis….
La confraternita provvide ad aprire un conto a parte nel quale versare le doti ricadute le cui rendite reinvestite sarebbero state utilizzate a tale scopo anche se questo fu vero ma per poco tempo.
Nel frattempo infatti l’Arciconfraternita aveva ricevuto un altro pietoso incarico dal confratello Bartolomeo Bandinelli, che gli aveva lasciato con testamento rogato il 5 maggio 1617 per gli atti di Quintiliano Gargari notaio capitolino tutti i suoi beni con l’obbligo di aprire un collegio per la cristiana educazione ed istruzione dei giovani figli di confratelli. Ma i mezzi non si dimostrarono sufficienti a sostenere tale fondazione.
Le porte del collegio aprirono solo nel 1678 ma con poche sostanze cominciò ad accumulare una serie di debiti nei confronti dell’Arciconfraternita chiamata a soccorrerlo in continuazione, tanto che i confratelli si videro costretti a supplicare papa Clemente XIV, chiedendo che quanto precedentemente concesso da Clemente XII fosse questa volta devoluto per necessità al Collegio.
Anche questa istanza fu accolta con esito favorevole nel rescritto pontificio 25 novembre 1772: «SS.mus attentis expositis ac firma remanente semper lege distribuendi enunciata subsidia dotalia puellis damnatorum ad poenam ultimi supplicii, benigne annuit pro gratia juxta petita durante necessitate et causa in supplicii libello expositis, super quibus oratorum conscentiam oneravit».
I confratelli aprirono nei registri relativi all’amministrazione dei legati ed eredità un altro capitolo chiamato conto a parte, questa volta a favore del Collegio Bandinelli nel quale si accreditavano le somme derivanti dalle doti ricadute che a loro volta venivano liquidate annualmente con contestuale versamento nelle casse dell’istituto.
Solo per quanto concerne l’amministrazione dell’eredità di Valerio Buonafede si decise a partire dal 1667 di tenere un libro mastro a parte e dal momento che l’ammontare delle ricadenze era vistoso, fu pagata la cessione di 9 luoghi di monte, versati in contanti.
Malgrado le richieste fossero state accolte positivamente, i confratelli si dimostrarono piuttosto superficiali trascurando completamente la restrizione pontificia che riguardava le doti che fossero riservate esclusivamente ai figli dei confratelli, evidente nel rescritto del 1737 e confermata nel 1772, tanto che non tenendo in considerazione le volontà dei testatori furono devolute indistintamente tutte le doti, senza alcuna riserva. Dell’errata interpretazione delle parole pontificie se ne accorse l’allora provveditore Pierfrancesco Foggini, ma evidentemente non fu ascoltato.
Le vicende politiche ed i dissesti economici costrinsero il Collegio a chiudere i battenti nel 1798. Il conto della ricadenze continuò fino al 1800.
La questione fu brevemente riaperta nel 1856 dall’avvocato Giuseppe Alessandri che nel rapporto presentato ai confratelli sulla convenienza di riaprire il collegio riprendeva la possibilità di potersi appoggiare economicamente alle doti ricadute.
Il discorso venne nuovamente affrontato qualche decennio dopo, quando l’Arciconfraternita, al fine di dipanare ogni dubbio sull’erogazione dotalizia e sulla possibilità di devolvere ad altri scopi la ricadenza delle doti, incaricò nel 1879 l’avvocato Scatizzi di analizzare una volta per tutte i testamenti dei benefattori ed alla luce dei rescritti pontifici delineare una chiara metodologia nelle erogazioni. Gli esiti di tale indagine sostennero l’esclusione dei legati Barbieri e Salvatori, in quanto erano gli unici ad aver sottolineato la destinazione alle figlie e sorelle dei fratelli.
Infatti una tale prelazione non si rendeva manifesta nelle parole di Matteo dell’Ancisa, per il quale la priorità era determinata dai consanguinei ed in secondo luogo, non dalle figlie dei confratelli, ma da chi fosse a loro preferita. Il legato Carpiani non menzionava in nessun caso le figlie dei confratelli.
Qualche dubbio presentava invece il legato Buonafede per le doti per matrimonio in quanto aveva dichiarato di preferire le povere orfane e di maggiore età, in primis le figlie o sorelle della compagnia, poi quelle della nazione fiorentina. Inoltre aveva specificato la preferenza per le giovani che volessero prendere i voti.
Nel frattempo, l’Unità d’Italia determinò la necessità di un riassetto amministrativo delle strutture esistenti sul territorio a cui furono soggetti anche gli istituti di beneficenza. In questo senso la legge 3 agosto 1862, n. 753 ed il relativo regolamento 27 novembre 1862, n. 1007 non furono particolarmente incisivi tanto che l’Arciconfraternita si dimostrò piuttosto latitante nei confronti delle disposizioni legislative promulgate che in fin dei conti non ne intaccavano l’autonomia amministrativa ma, demandando il controllo alle deputazioni provinciali, si limitavano a richiedere l’invio annuale dei conti consuntivi.
Questo atteggiamento di completa indifferenza spinse il Ministero dell’Interno nel 1889 a decretarne il commissariamento imponendole il controllo del cavalier Achille Pognisi, che in breve tempo stravolse l’amministrazione dotalizia predisponendo uno statuto organico ed un regolamento che, anche se nella sostanza non apportavano alcuna variazione, le attribuivano comunque un’autonomia e delle funzionalità che non le erano propri. Poneva invece fine alla diatriba delle doti ricadute stabilendo che quelle Barbieri, Salvatori, Ancisa e Bonafede non reclamate e quindi non riscosse, ricadessero nuovamente sull’Arciconfraternita, mentre le altre, in virtù del rescritto di Clemente XIV del 25 novembre 1772 fossero destinate al Collegio Bandinelli (cap. XX).
Cessata la dittatura Pognisi il 17 dicembre 1891, così come fu definita, i confratelli si trovarono a far i conti con la legge 17 luglio 1890, n. 6972 che, a differenza della precedente, trasformava le opere pie in enti di beneficenza e assistenza pubblica, limitando le irregolarità nella gestione e mirando soprattutto a rendere più incisivo il controllo statale.
Nel 1906 i confratelli prepararono un Regolamento per l’Opera pia dotalizia (edito nel 1907), mentre lo statuto rimaneva quello dell’Arcicofraternita.
Le modalità di selezione si dimostrarono le stesse, per collazione o per sorteggio ma le doti erano destinate, come specificato nell’art. 1 in risposta ad un ammodernamento delle finalità degli istituti ormai cambiate nel corso dei secoli, alle sole doti per matrimonio.
La Congregazione generale della Fratellanza ogni prima quindicina del mese di agosto procedeva al conferimento delle doti che sarebbero state pagate dalla commissione amministrativa il giorno della festa di S. Giovanni Decollato. Il credito dotale si riteneva estinto quando la dotanda avesse compiuto 50 anni, oppure in caso di sua rinuncia scritta. Le doti che cessavano di avere valore, se provenienti dai lasciti Barbieri, Bonafede, Dell’Ancisa e Salvatori ricadevano a favore dei rispettivi legati per essere nuovamente conferite secondo le volontà dei testatori, mentre le doti dei legati Averini, Carpiani, Del Benino, Fede e Papini ricadevano in virtù del rescritto di papa Clemente XIV del 25 novembre 1772 a favore del Collegio Bandinelli.
Il patrimonio continuava ad essere amministrato dagli impiegati e dagli inservienti, gestito separatamente come in passato. I libri mastri, in particolare, offrivano uno specchio complessivo delle uscite che incidevano sulle rendite di ciascuna eredità, il cui ricavato veniva devoluto in doti, una volta depurato dalle spese per oneri patrimoniali, spese di amministrazione, imposte e tasse, assegni al personale.
Alla commissione amministratriva spettava il compito di approvare gli elenchi delle candidate e di verificare, ogni due anni, le cedole dotali rilasciate, che venivano registrate in elenchi a parte delle doti conferite e non pagate. Ogni anno era tenuta ad inviare il bilancio consuntivo e quello preventivo, approvati dalla congregazione della fratellanza, il cui verbale veniva allegato ed inviato poi alla Prefettura della provincia insieme all’avviso dell’avvenuta pubblicazione del bilancio sull’Albo Pretorio.
Alla fine di ogni anno la congregazione provvedeva al bilancio consuntivo e a quello preventivo, approvati dapprima dalla congregazione generale della fratellanza, il cui verbale viene allegato al conto e poi dalla Prefettura della provincia.